Alla scoperta dell’umami

Cosa hanno in comune una zuppa di funghi con tanto parmigiano e un piatto di spaghetti saltati all’orientale? Il sapore umami. Un gusto che fino a qualche tempo fa sembrava ad appannaggio della cucina giapponese o cinese ma che invece si è scoperto appartenere anche alla tradizione mediterranea e ai suoi ingredienti più celebri. I cibi dal sapore umami che usiamo quotidianamente sono moltissimi e, oltre a rendere i piatti gustosi e invoglianti, aiutano a restare in salute, almeno secondo i ricercatori della Tōhoku University in Giappone.

Cosa vuol dire umami

Definire l’umami non è semplice. Si potrebbe semplicemente affermare che l’umami è un sapore “buono” che invoglia a dare un altro morso al cibo che lo contiene. È un sapore ulteriore a dolce, salato, amaro, aspro (da qui la definizione di “quinto sapore”) e grasso (se si considera anche quest’ultimo, l’umami diventa il “sesto sapore”). L’umami si trova in coda alla lista dei gusti proprio perché, storicamente, è l’ultimo ad essere stato scoperto e riconosciuto: l’identificazione dell’umami è avvenuta nel 1908 ad opera del chimico giapponese Kikunae Ikeda e solamente nel 2003 sono stati identificati i ricettori presenti in bocca capaci di decodificarlo.

Tornando alla definizione, ci viene in soccorso l’Umami Information Center che alla domanda “cosa vuol dire umami” risponde che si tratta di un “un gusto sapido e piacevole che viene dal glutammato e da diversi ribonucleotidi, tra cui inosinato e guanilato, che si trovano naturalmente in carne, pesce, verdura e prodotti lattiero-caseari”. Chiaro? Forse no. Scopriamo allora, in parole semplici, cos’è l’umami.

Cos’è l’umami

La risposta a questa domanda è legata a una seconda questione, ovvero: come si riconosce l’umami? Nessuno di noi si chiede cosa sia il sapore aspro proprio perché è facile da riconoscere: basta addentare un limone per rendersene conto. L’umami è un sapore importante che spesso determina la buona riuscita o meno di un piatto ma non è semplice da identificare. Il professor Ikeda isolò il composto chimico responsabile del sapore umami: il glutammato di sodio. Questa molecola è il faro nella notte per riconoscere l’umami: dove ci sono alte concentrazioni di glutammato di sodio c’è il sapore umami.

Quali sono i cibi dal sapore umami?

Finalmente possiamo fare pratica in cucina assaggiando i cibi che contengono più glutammato di sodio e quindi sono più umami. Per avere una panoramica completa puoi fare riferimento al sito dell’Umami Information Center che elenca i cibi più umami al mondo divisi per categoria. All’interno di questo database spiccano la carne vaccina cotta, il prosciutto, frutti di mare, prodotti fermentati a base di pesce, formaggi stagionati come il parmigiano, alghe, funghi, molti ortaggi come pomodoro, carota e asparago, e frutta a guscio: arachidi, anacardi e nocciole. Questi alimenti hanno in comune la sapidità e una “yummy deliciousness” che li rende appetibili anche sconditi.

C’è da dire però che la prima esperienza con il sapore umami avviene, per molti di noi, ben prima del momento in cui si ordina un tagliere misto al ristorante. Quando? Con la prima poppata di latte materno. Anzi, forse anche prima perché pare che il sapore umami sia presente persino nel liquido amniotico.

Perché l’umami fa bene alla salute

Se l’umami non fa più notizia, una news che lo riguarda c’è: le sostanze che rendono un cibo umami fanno bene alla salute. Lo ha scoperto un pool di scienziati della Tōhoku University dimostrando che l’insensibilità al sapore umami causa inappetenza, riduzione della salivazione, perdita di peso e, di conseguenza, un peggioramento complessivo dello stato di salute soprattutto in soggetti anziani o convalescenti.

Non solo, il merito dell’introduzione della cucina tradizionale giapponese nel patrimonio immateriale UNESCO va proprio all’umami: è il sapore umami degli ingredienti sani ma saporiti di questa cucina ad avere la meglio sull’utilizzo eccessivo dei grassi animali.

Ma l’umami non faceva male?

Il sapore umami è stato a lungo vittima di un pregiudizio che vede il glutammato monosodico, usato per insaporire le pietanze, protagonista della “sindrome del ristorante cinese”. Una presunta malattia diffusa nei ristoranti orientali colpevoli, secondo l’America più conservatrice degli anni ’60 -70′ del 1900, di usare quantità eccessive di glutammato monosodico.

Non solo l’esistenza della sindrome è stata scientificamente smentita ma, secondo la valutazione degli additivi alimentari di FAO (Food and Drugs Organisation) e WHO (World Health Organisation), il glutammato non fa male e non è pericoloso. Ma non facciamo confusione: ora ci stiamo riferimento al glutammato monosodico, un prodotto chimico di sintesi usato come additivo in polvere e non al glutammato naturalmente presente all’interno dei cibi. Tra un panino hamburger e pomodori e una confezione di noodles confezionati c’è una certa differenza: il secondo probabilmente contiene E620 ed E625 (il glutammato monosodico aggiunto come additivo ed esaltatore di sapidità), il primo no: sprigiona un sapore umami per merito esclusivo della materia prima.

Come fare delle ricette umami

Prima di tutto: scegliere ingredienti naturalmente umami. Ma esistono dei condimenti capaci di aggiungere gusto, sapidità e ricchezza a qualsiasi piatto. In cima alla lista troviamo salsa di soia e miso di soia oppure di riso, alimenti fermentati di origine asiatica. Ancora: salsa di pesce, salsa worchester e le australiane Marmite e Vegemite. Per restare in Occidente: una spolverata di parmigiano (o di lievito alimentare inattivo per chi segue un’alimentazione vegetale), triplo concentrato di pomodoro, triti di olive, capperi e pomodori secchi.

Infine, il sopracitato glutammato monosodico, un prodotto chimico di sintesi del quale si è detto tutto e il contrario di tutto. Ma si è arrivati ad una conclusione: non fa male. E la sindrome del ristorante cinese non esiste.